lettera a mia figlia scritta pedalando

person Pubblicato da: Leone Belotti - Calepio Press list In: Blog Ultimo aggiornamento: comment Commento: 0 favorite Visualizzazioni: 1541

Eri una bambina timida, gracile. Oggi sei un’atleta e una donna fantastica. Dici a tutti: ho preso da mio padre la passione per la bici. Oppure: la bici è la mia parte maschile. E anche: è la mia droga. Io sorrido, e penso: un giorno dovrò farti un discorso. Dirti com’è andata veramente. Spiegarti che cosa è stata la bici per me, per noi. Non è facile. 

Era un altro mondo. Si parlava poco, e quel poco con rabbia. A scuola, a casa, pedate nel sedere. Appena potevi, prendevi la bici, andavi al fiume. Quello ti calmava, la forza del fiume. Arrivavano i tuoi tre amici, la faccia torva come la tua, li salutavi con un cenno. Buttavano la bici nell’erba e si sedevano lì con te a guardare l’acqua. Bastava una mezza frase e improvvisamente tutto lo schifo della giornata esplodeva in risate, scemenze, spintoni. Legavamo una lunga corda da alpinismo al portapacchi di una vecchia Graziella e con quella saltavamo dall’argine nel fiume. Avevamo dodici anni. Quell’estate ci eravamo ritrovati a occhi sgranati a guardare il passaggio del giro d’Italia. Il giorno dopo, al bar sport, prendevamo i moduli per iscriverci all’unione ciclistica. 

Cinque anni dopo, stesso posto giù al fiume. Notte di mezza estate, musica heavy metal dal mangianastri della vespa truccata. Il primo cylum, la fame chimica. All’alba nudi in acqua, ubriachi, molto efficienti nel montare in mezzo al fiume un trabattello rubato nel cantiere dove lavoravamo. Per pescare. Su quel trabattello in realtà, cercavamo di capire qualcosa delle nostre vite. Non eravamo più bambini. Aspettavamo la cartolina per andare militare. Avevamo passato gli anni dello sviluppo ogni giorno insieme, mattino a scuola, pomeriggio in sella.  Gli allenamenti, le cadute, le bestemmie dell’allenatore. La bici più grande, le prime gare. In testa avevamo un chiodo fisso, ma con le ragazze in carne e ossa non eravamo capaci nemmeno di parlare. E allora ci si sfogava sui pedali. La simbiosi del correre in gruppo, l’adrenalina della fuga, l’orgasmo della volata. Juniores, pista, dilettanti. Eravamo cresciuti sui pedali. Ma nessuno di noi era un campione. 

Dopo la naia, siamo finiti nel mondo del lavoro quasi senza accorgercene. Chi in cantiere, chi in fabbrica, chi al volante, chi in ufficio. E nessuno aveva più tempo o voglia di pedalare. Le bici erano finite appese a un chiodo, in fondo al garage. Quello di noi che andava più forte, l’unico che avrebbe potuto fare strada nel professionismo, fu il primo ad andarsene. Ventidue anni, grande scalatore, morto di overdose nel cesso di un treno. Tutta la vecchia squadra al funerale. 

Pochi anni dopo, si era arreso il velocista. Nel garage di casa sua, con il gas di scarico. L’ultimo l’hai conosciuto anche tu, te lo ricordi bene, anche se avevi solo quattro anni. Ti ha insegnato ad andare in bici senza le rotelle. Era fuori di testa, si. Collassato di bamba in un motel a luci rosse, il giorno del suo trentatreesimo compleanno. Quello è stato il nostro terzo funerale, un sabato caldissimo d’inizio estate, e al cimitero qualcuno ha detto: domani potremmo fare un giro in bici. Gente che non pedalava da dieci anni, con dieci chili in più addosso, e dieci anni di sigarette. Alla fine, eravamo scesi al fiume. Avevamo acceso il fuoco. Non avevamo avuto bisogno di bere, né d’altro. Per farci sballare c’erano i ricordi dei nostri amici. Poi avevamo dovuto spingere le bici per risalire, sfottendoci a vicenda. Da quel giorno, la bici è tornata nelle nostre vite. Chi si è dato al cicloturismo, chi alla mountain bike. Chi, come me, ha cominciato a portare in giro in bici i figli. 

Non abbiamo più avuto funerali. Quando ogni anno ci troviamo a fare la notte al fiume, è per stare con i nostri amici che non ci sono più. Ma non c’è niente da mitizzare di quel mondo di allora, figlia mia. Non c’è da parlare della bici come passione maschile. 

Eravamo una generazione allo sbando. Non avevamo la consapevolezza che avete oggi, non capivamo il piacere, il benessere dell’andare in bici. Era l’unico mezzo per scaricare la rabbia, il rifiuto delle regole, l’impotenza, la fame di vita, il bisogno d’amore. Non era la nostra droga. Era l’alternativa alla droga.

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